I friarielli sono molto simili alle cime di rape, sono broccoletti con infiorescenze appena sviluppate. Si soffriggono in aglio, olio e peperoncino, e rappresentano uno dei piatti più caratteristici della cucina napoletana. Difficilmente si trovano lontano da Napoli.



 

 

 


LA STORIA DEI FRIARIELLI  

 Per indicare qualcuno che non assurge alle vette più alte del pensiero si dice: “Non è un’aquila.” E anche: “Non è una cima.” Questa seconda espressione si rivela assai poco calzante quando il soggetto di cui si parla è un napoletano. E quando le cime non sono quelle elevatissime del genio, ma le umilissime, terrestri cime di rapa. “Rapa: pianta orticola coltivata per la produzione delle radici, di forma tondeggiante o allungata, dalla polpa bianca e croccante e dal sapore intenso, dolciastro o leggermente piccante”. Così il Dizionario di gastronomia di Antonio Piccinardi.

Non ci si lasci ingannare da questa accattivante descrizione: le rape non sanno di niente. E niente sanno; per estensione, una testa di rapa è una testa imbottita di idee sciocche, o - quando va bene- insipide. L’impossibilità di cavar sangue da una rapa è la metafora linguistica più adatta a descrivere l’inanità degli sforzi di chi cerca di ricavare qualcosa dal Nulla assoluto.  

Ebbene, i napoletani sono riusciti in questa missione che va ben oltre i confini dell’impossibile. Con l’aiuto del proprio proverbiale ingegno, certo: ma pure dell’umilissima rapa. Poveri com’erano di tutto, ma non di idee, le figlie di primo letto di mamma Indigenza e papà Bisogno, i napoletani d’antan potevano rivolgere lo sguardo  solo verso i cibi poveri quanto loro. Ad alzare gli occhi incavati dalla fame verso le finestre dei ricchi erano invece le napoletane, che si affollavano sotto le cucine dei nobili nella speranza che si degnassero di buttar loro qualcosa.

Quando i ricchi del momento erano i Francesi, i cuochi (i “Monsù”) d’Oltralpe solevano gettare alla plebe gli avanzi (o peggio: i rifiuti) della cucina. “Les entrailles”, le interiora del pollame e di altri animali divennero  così il nome con cui venivano chiamate le popolane che se le contendevano tra urla e spintoni: “zandraglie”, per l’appunto.

Forse è per questo che Napoli è considerata un luogo dell’anima: un luogo interiore. Purtroppo, però, non sempre il cibo pioveva dal cielo. Per mangiare, i napoletani cominciarono a guardare in basso: alle cime di rape. Dove per “cime” s’intendono gli ammassi fiorali, le infiorescenze non ancora aperte, delle rape. In una parola, i  broccoletti.

In Italia, a questo alimento s’interessavano in tanti (specie al Sud, terra di poveracci): chi li lessava, chi li cuoceva. I Toscani le chiamavano affettuosamente “rapini”, i baresi li cucinavano con le orecchiette. Questa abitudini sono vive ancora oggi, in quelle terre.  

A Napoli no. A Napoli, le cime di rapa prima si lavano, e poi, tutte bagnate, si gettano nell’olio. Con il loro sacrificio danno vita ad uno dei piatti più creativi della cucina partenopea: i friarielli. Le cime di rapa cotte nell’olio. 

Ma dove sta tutta questa creatività? In fondo si tratta di un piatto povero, e pure semplice da preparare. Per capirlo bisogna fare un passo indietro. Quando qualcosa (o qualcuno) non gli piace, o non lo convince, il napoletano dice: “Nun me dà calore.” Calore va inteso come caloria. Il metro è infatti questo: il Bello (e il Buono) sono le cose che nutrono. Contro le calorie a Napoli si è sempre combattuto: non per diminuirle (come si fa oggi nel mondo occidentale), ma per aumentarle. In quest’ottica, le cime di rapa (a buon mercato in qualunque buon mercatino) di calorie ne fornivano davvero poche. In assenza di dietologi e nutrizionisti, quest’informazione proveniva dalla pancia. Per gustarsele, occorreva perciò metterle insieme a qualcosa di fortemente calorico.

E’ qui che saltò fuori l’idea geniale, che fece crescere enormemente il prodotto interno lardo dei napoletani: le cime di rapa venivano cotte dentro abbondanti razioni di strutto.  Che a Napoli, come tutte le grandi madri, è femminile: ‘a nzogna. Cioè la sugna.   

La cerimonia nuziale tra il lardo e la cima di rapa si chiama frittura. Un metodo di cottura che consiste nel mettere un alimento in un grasso portato a temperatura elevata. Un ottimo sistema per fare un pieno di energia.

Oggi qualcosa è cambiato: il grasso. Lo strutto ha ceduto il posto all’olio di oliva: quello  extravergine, il più stabile alle alte temperature necessarie per friggere.

L’olio e la frittura però vengono dopo. Prima bisogna dedicare la propria attenzione alle cime di rape. Che vanno raccolte al momento giusto: i fiori devono esserci già, ma non devono essersi ancora aperti. Ma non preoccupatevi troppo: a scegliere le cime di rapa più adatte a diventare friarielli ci pensa il vostro “verdummaro”; a meno che non vogliate mettervi dalla parte dell’orto.

A voi potrebbe toccare il compito di “ammonnarli”: cioè di mondarli delle parti non utilizzabili per la frittura. E’ un altro momento importante, perché vanno lasciate solo le foglie più tenere, insieme a un po’ di gambo: non troppo, ma nemmeno troppo poco. 

Raccolte, “ammonnate”, e lavate, le cime di rapa vengono invitate ad immergersi nell’olio ben caldo, dove avranno l’onore di  diventare friarielli. Mai bollirle prima! Gran parte del sapore volerebbe via.

Nella padella, insieme all’olio, c’è già in attesa l’aglio. A cottura quasi ultimata,  si può (si deve!) scoprire, si aggiunge il sale e il peperoncino.

Eccoli qua, i friarielli. Finalmente sono nati. Ma da come si muovono nella padella, si comprende che si sentono orfani. Si voltano e si girano, fino a che non vengono portati dalla loro mamma: la salsiccia. Di maiale, ovviamente.

I friarielli senza salsicce  sono come Stanlio senza Ollio; come don Chisciotte senza Sancho Panza, come Gargantua senza Pantagruel. Tanto per restare nel culinario.

 I friarielli sono una specialità tipicamente napoletana. Attenti a non ordinarli nelle altre zone della Campania: già in Penisola Sorrentina, a meno di 50 Km. dal capoluogo, se chiedete una porzione di friarielli vi porteranno dei (magnifici, per carità) peperoncini verdi fritti. Perché “frjere” in napoletano vuol dire semplicemente friggere.

Il friariello è di umili origini. Proprio come il piatto più famoso della cucina partenopea: la pizza. Non a caso, “’a  pizza ch’e friarielle” è stata la prima variante (dopo la Margherita) della pizza.

E della pizza, i friarielli condividono il destino: mangiarli fuori Napoli è quasi impossibile, almeno quanto mangiare una “vera” pizza napoletana.

Già a Roma, non se ne trovano. Né nei mercati, né nei ristoranti,. Ad eccezione di quei pochissimi locali che si fanno arrivare tutto da Napoli: pizzaioli, camerieri e materie prime (pomodori, mozzarella, fiordilatte, e –appunto! – friarielli). Ed è lì che pizza e friarielli si ritrovano di nuovo insieme, per la gioia del napoletano emigrato, ma sempre grato alla sua terra per quello che gli dà. 

 

 

 
 

siti partner: